Sommario

Considerazioni finali

L’elaborazione di una tale quantità di dati suggerisce numerosissime piste di ricerca ma, nello stesso tempo, costringe a non andare molto oltre la superfice e a trascurare il dettaglio. Indica, inoltre, questioni e punti critici per indagare i quali l’elaborazione dei dati andrebbe integrata con molto lavoro sul campo. Pensiamo tuttavia sia possibile, anche a questo stadio abbastanza grezzo di elaborazione, individuare alcuni punti che ci sembrano riguardare il sistema nel suo insieme.

La prima evidenza, all ’interno della quale tutte le considerazioni sullo stato dell’Università italiana vanno contestualizzate , è che il sistema universitario decresce . Pertanto i cambiamenti di equilibrio al suo interno sono perlopiù derivanti dal gioco fra maggiori e minori perdite. Tuttavia, nel complessivo rimpicciolimento dell’università, c’è anche chi guadagna quello che altri hanno perduto.

9.1. La decrescita e le sue caratteristiche

Si è ripetuto più volte che il calo complessivo dei docenti/ricercatori, dal 2008 al 2020, è stato dell’11,74% e che la diminuzione degli iscritti dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020 è stata del 4,68%.

Va però sottolineato che queste perdite sono andate tutte a carico del sistema universitario pubblico.

Dal 2008 al 2020, la numerosità dei docenti ricercatori è scesa del 14,34% nelle università statali, mentre nelle università non statali i docenti/ricercatori sono aumentati del 22,67% e nelle università telematiche del 789,53% (da 86 a 765 in valori assoluti; cfr. Tabella 80 ). Nel 2008 prestava servizio nelle università statali il 95,78% dei docenti/ricercatori, nel 2020 questa percentuale è scesa al 92,96% (cfr. Tabella 82 ).

L’area geografica in cui è maggiore lo spostamento degli equilibri a favore del sistema non statale è il Centro: nel 2008 i docenti/ricercatori delle università non statali erano il 2,26% del totale dell’area; nel 2020 sono il 7,42%. Nel Nord tali percentuali passano dall’8,07% del 2008 al 9,79% del 2020; nel Sud e nelle Isole dallo 0,80% al 2,66%.

Il fenomeno è più rilevante quando si guarda alle iscrizioni . Dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020 gli iscritti diminuiscono del 9,66% nelle università statali, salgono del 9,66% nelle università non statali (dove arrivano a 111.275 in valori assoluti) e del 168,78% nelle università telematiche (dove passano da 39.620 a 106.491 in valori assoluti; cfr. Tabella 167 ). Nel 2010/2011 era iscritto alle università statali il 92,23% degli studenti, nel 2019/2020 questa percentuale è scesa all’87,42% (cfr. Tabella 168 ).

Insomma il sistema universitario non solo decresce ma diventa sempre meno pubblico.

Nondimeno anche i sistemi statale e non statale si presentano come insiemi non omogenei. Mentre la numerosità dei docenti decresce nelle Mega università statali del 17,76% – e per le altre università statali registriamo -16,60% nelle Grandi, -10,40% nelle Medie e -5,60% nelle Piccole – i Politecnici crescono lievemente (+1,19%) e le Scuole Superiori incrementano i loro docenti/ricercatori del 40,82% (cfr. Tabella 84 ). Così i docenti/ricercatori nelle Grandi università non statali diminuiscono del 9,55%, ma nelle Medie crescono del 49,06% e nelle Piccole del 125,16% (cfr. parr. 3.7. Grandi atenei non statali. Docenti/ricercatori per fascia e per genere ; 3.8. Medi atenei non statali. Docenti/ricercatori per fascia e per genere ; 3.9. Piccoli atenei non statali. Docenti/ricercatori per fascia e per genere ).

A loro volta, gli iscritti alle università statali decrescono del 9,12% nelle Mega università, del 14,66% nelle Grandi, del 4,90% nelle Medie, del 18,48% nelle Piccole, ma crescono del 10,34% nei Politecnici.

Gli iscritti alle università non statali crescono del 4,95% nelle Grandi università non statali, scendono lievissimamente nelle Medie (-0,22%) e salgono del 53,23% nelle Piccole (cfr. Tabella 169 ).

Anche nel peso percentuale dei docenti/ricercatori nelle tre macro-aree geografiche del Paese sono immediatamente visibili cambiamenti all’insegna della minor perdita . Il numero dei docenti/ricercatori decresce infatti del 5,09% nelle università del Nord, del 17,51% in quelle del Centro e del 15,68% in quelle del Sud e delle Isole (cfr. Tabella 13 ). Così, se la distribuzione territoriale dei docenti/ricercatori nel 2008 era 41,74% al Nord, 26,35% al Centro e 31,92% al Sud e nelle Isole, nel 2020 è divenuta 44,88% al Nord, 24,63% al Centro e 30,49% al Sud e nelle Isole (cfr. Tabella 14 ).

Se, però, prendiamo in considerazione separatamente il sistema universitario statale e quello non statale nelle tre aree del Paese, possiamo osservare in maggior dettaglio quanto la decrescita dei docenti/ricercatori sia a carico del sistema statale. Al Nord i docenti/ricercatori nelle università statali diminuiscono del 6,87%, a fronte di un aumento del 9,93% nelle università non statali; al Centro i docenti/ricercatori nelle università statali diminuiscono del 21,87% ed aumentano del 77,10% nelle università non statali; al Sud e nelle Isole i docenti/ricercatori nelle università statali diminuiscono del 17,27% e crescono del 93,08% nelle università non statali (cfr. Tabella 125 ).

Inoltre i “sistemi universitari regionali” sono tra loro diversi: in alcune regioni ci sono unicamente atenei statali; in quelle dove invece il sistema è “misto” (atenei statali, non statali e telematici) ve ne sono alcune – come la Lombardia o il Lazio – in cui la presenza non statale è particolarmente rilevante.

Nelle regioni del Nord in cui gli atenei sono tutti statali la perdita complessiva di docenti/ricercatori è stata dell’11,29%. Nelle regioni del Nord in cui il sistema è misto si registra il lievissimo guadagno dello 0,96%

Come si è detto, la regione del Nord dove è più alta la concentrazione di atenei non statali è la Lombardia, dove si registra una perdita dello 0,99%. È però il Trentino Alto Adige – con la sua crescita del 47,48%, cui coopera per buona parte la Libera Università di Bolzano (+197,87% dal 2008 al 2020) – a contribuire alla crescita del segmento “misto” del Nord.

Nelle regioni del Centro in cui gli atenei sono tutti statali la perdita complessiva è stata del -17,78%. Nelle regioni del Centro in cui il sistema è misto la perdita è del 17,45, ripartita in -14,23% in Lazio (dove il sistema privato è fiorente) e -22,40% in Toscana, dove c’è solo una piccolissima telematica (in valori assoluti, 3 docenti/ricercatori nel 2020).

Nelle regioni del Sud e nelle Isole in cui gli atenei sono tutti statali la perdita complessiva è stata del 16,16%; dove il sistema è misto del 15,61% (cfr. par. 3.11. Grandezza e tipologia degli atenei: aree geografiche e regioni ).

Se veniamo agli iscritti, la variazione negativa che dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020 registriamo sul totale è territorialmente ripartita in un guadagno dell’8,10% al Nord e in perdite del 7,60% al Centro e del 16,66% nel Sud e nelle Isole (cfr. Tabella 154 ).

Guadagni e perdite che vanno diversamente ripartiti fra il sistema statale e quello non statale: il primo guadagna il 5,49% di iscritti al Nord e perde il 12,28% al Centro e il 23,49% al Sud e nelle Isole. Il secondo guadagna complessivamente (non statali Grandi, Medie e Piccole e telematiche) il 54,34%: il 31,49% al Nord, il 35,80% al Centro e il 151,84% al Sud e nelle Isole (cfr. Tabella 171 ).

Infine, nell’anno accademico 2010/2011 la distribuzione territoriale degli iscritti alle università statali era 35,21% al Nord, 22,78% al Centro e 34,23% al Sud e nelle Isole.

Nell’anno accademico 2019/2020 gli iscritti alle università statali erano per il 38,97% al Nord, il 20,97% al Centro e il 27,48% al Sud e nelle Isole (cfr. Tabella 172 ).

Già questi pochissimi dati delineano un sistema ineguale, conflittuale e concorrenziale al suo interno, in cui si approfondiscono divari esistenti e se ne creano di nuovi. Un sistema in cui gli attori si contendono risorse scarse su almeno tre campi di gioco: quello accennato qui degli iscritti, quello – che è stato spesso evocato – dell’accesso alle premialità e, infine, quello dell’accesso ai finanziamenti per la ricerca, che in questo rapporto non abbiamo preso in considerazione.

Veniamo ora ai tratti più salienti emersi dall’elaborazione dei dati.

9.2. Il divario di genere

Il primo aspetto di lungo periodo che appare evidente e – crediamo – incontestabile è il divario di genere, sul quale si è recentemente espresso anche il Consiglio Universitario Nazionale. Nell’adunanza del 17 dicembre 2020, il CUN ha indirizzato al Ministro un documento di Analisi e Proposte sulla questione di Genere nel mondo universitario italiano con il quale si rileva che «in Italia la presenza femminile nel percorso universitario, nel passaggio dalla formazione alla carriera accademica, diventa sempre più esigua con il progredire della posizione. Ostacoli culturali e strutturali, interni ed esterni al sistema, determinano una forte segregazione verticale (differenze per posizione) e orizzontale (differenze per area). […] In questo quadro, il sistema universitario rispecchia purtroppo le disuguaglianze della società in cui opera » ( Consiglio Universitario Nazionale, 2020 ).

Coerentemente con quanto espresso dal CUN, i nostri dati mostrano una rilevante maggioranza di donne fra le figure in formazione (iscritte, dottorande) e fra i laureati e i dottori di ricerca. Dobbiamo tuttavia rimarcare la diminuzione dell’incidenza percentuale delle donne nel passaggio tra il primo e secondo livello e il terzo livello degli studi universitari, dove già inizia la progressiva uscita delle donne dal mondo universitario. Nella tabella seguente mettiamo a confronto le medie di donne e uomini iscritti, laureati, iscritti alle scuole di dottorato e dottori di ricerca dal 2008 al 2019.

Tabella 551 . Iscritti, laureati, iscritti alle scuole di dottorato e dottori di ricerca per genere. Medie 2008-2019. Valori percentuali. Fonte: ns. elaborazione dati Ustat-Miur.

Media 2008-2019 – Donne

Media 2008-2019 – Uomini

Iscritti [118]

56,35%

43,65%

Laureati [119]

58,16%

41,84%

Iscritti alle Scuole di Dottorato [120]

51,07%

48,93%

Dottori di ricerca [121]

51,27%

48,73%

Da questi dati emerge non soltanto che le donne si iscrivono in misura maggiore degli uomini ma, anche, che portano a termine i corsi di studi in misura maggiore degli uomini.

Per quanto riguarda poi le figure dei docenti/ricercatori, i dati in valori assoluti mostrano chiaramente l’esistenza di una segregazione verticale.

Come si è già notato in apertura di questa trattazione, dal 2008 al 2020 la quota delle donne nei totali è salita dal 33,96% al 38,46%. Si è però rimarcato – in un quadro generale in cui le variazioni percentuali sono generalmente legate a minori diminuzioni piuttosto che ad aumenti – che anche questo risultato è legato appunto a un minor calo della componente femminile (-0,4%), rispetto a una componente maschile diminuita del 17,76% (cfr. Tabella 11 ). In maniera pressoché analoga, dal 2008 al 2020 fra i professori ordinari abbiamo avuto un aumento della componente femminile dello 0,50% in valori assoluti e un decremento della componente maschile del 31,20% (cfr. Tabella 12 ). Ne è conseguita una variazione percentuale della componente femminile della prima fascia dal 18,84% del 2008 al 25,33% del 2020 (cfr. Figura 5 ).

I professori associati sono la fascia che è cresciuta di più, per effetto dei passaggi di fascia dei ricercatori a tempo indeterminato e degli RTD-B. In seconda fascia le donne sono cresciute in termini assoluti del 50,96% e gli uomini del 14,20% (cfr. Tabella 12 ), il che ha portato l’incidenza percentuale delle donne dal 33,84% del 2008 al 40,33% del 2020 (cfr. Figura 6 ).

Nella tabella seguente mettiamo a confronto le medie di donne e uomini dei docenti/ricercatori a tempo indeterminato nello stesso segmento temporale esaminato nella tabella precedente: dal 2008 al 2019. [122]

Tabella 552 . Docenti/ricercatori T.I. per genere. Medie 2008-2019. Valori percentuali. Fonte: ns. elaborazione dati Miur-Cineca.

Media 2008-2019 – Donne

Media 2008-2019 – Uomini

Ricercatori a tempo indeterminato [123]

46,95%

53,05%

Professori Associati

36,26%

63,74%

Professori ordinari

21,74%

78,26%

Veniamo ora ai dati degli RTD-A e degli RTD-B. Per queste figure istituite con la legge 240/2010 utilizziamo le medie dal 2010 al 2019.

Tabella 553 . Ricercatori a tempo determinato di tipo A e di tipo B (legge 240/2010). Medie 2010-2019. Fonte: ns. elaborazione dati Miur-Cineca.

Media 2010-2019 – Donne

Media 2010-2019 – Uomini

RTD-A [124]

39,65%

60,35%

RTD-B [125]

34,28%

65,72%

In quelli che sono considerati i primi passi della carriera universitaria, vediamo che nella posizione precaria (RTD-A) il divario di genere è meno accentuato ma comunque più alto di quello dei ricercatori a tempo indeterminato, figura che si è ulteriormente “femminilizzata” con la messa in esaurimento, ma che già nel 2008 era composta da un 45,13% di donne e da un 54,87% di uomini (cfr. Tabella 185 ). Invece, nella posizione che prelude alla stabilizzazione – gli RTD-B sono i professori associati del prossimo futuro – il divario è persino più alto di quello della “fascia di destinazione”. Questo “filtro di genere” nel reclutamento, già commentato in letteratura ( Picardi 2019 , 2020 ), sembra prefigurare una nuova contrazione della futura presenza femminile in accademia.

Ad oggi, dunque, non solo le donne sono soltanto il 38,46% del totale dei docenti/ricercatori, ma a comporre questa percentuale sono per la maggior parte donne collocate nelle zone “basse” e “grigie” della piramide. Se, infatti, escludessimo dal calcolo della media le ricercatrici a tempo indeterminato (in esaurimento dal 2010, età media della fascia 50,2 nel 2018, cfr. ANVUR 2018 ), la percentuale media di donne nelle altre fasce risulterebbe essere del 32,98%.

Veniamo, infine, alle figure del “precariato” della ricerca e della didattica.

Tabella 554 . Contratti di collaborazione in attività di ricerca, assegnisti e docenti a contratto per genere. Medie 2015-2019. Valori percentuali. Fonte: ns. elaborazione dati Ustat-Miur.

Media 2015-2019 – Donne

Media 2015-2019 – Uomini

Contratti di collaborazione in attività di ricerca [126]

56,47%

43,53%

Assegnisti di ricerca [127]

50,41%

49,59%

Docenti a Contratto [128]

38,93%

61,07%

Osserviamo che le posizioni più precarie e “ancillari” della ricerca vedono una preponderanza di donne, mentre le medie dei docenti a contratto si avvicinano molto a quelle degli RTD-A.

Per quanto riguarda la segregazione orizzontale (cfr. Tabella 342 ), vediamo confermato il pattern internazionale che vede le donne molto presenti nelle discipline umanistiche e molto meno numerose negli ambiti delle scienze dure e dell’ingegneria ( European Commission 2019 ; Mavriplis et al. 2010 ; National Research Council 2010 ). Dobbiamo però anche rimarcare come l’Area 10 – a preponderanza femminile – sia anche la seconda nella decrescita di docenti/ricercatori (-22,32%) di poco staccata dall’Area 06 (-22,50%), mentre l’Area 09, che è quella con il minor numero di donne in assoluto, sia anche l’unica che cresce numericamente in maniera consistente (+10,03%; cfr. Tabella 296 ).

Secondo il Rapporto ANVUR 2018 «Un contributo a un riequilibrio nei prossimi anni della composizione per genere nei ruoli apicali della carriera accademica potrebbe venire dall’Abilitazione Scientifica Nazionale, in cui la scelta degli abilitati non sembra essere influenzata dal genere» (p. 627).

Secondo il rapporto, infatti, analizzando separatamente le domande e i tassi di abilitazione femminili e maschili, per la seconda fascia le percentuali di successo sono molto simili per donne e uomini (54,4% per le donne e il 54,8% per gli uomini). Per la prima fascia, poi, le candidate si abilitano per il 62% mentre gli abilitati uomini sono il 59,4% degli uomini che avevano fatto domanda ( ANVUR 2018 : 303).

Bisogna tuttavia rimarcare che le domande avanzate dalle donne sono state circa il 37% del totale ed anzi che il rapporto fra le domande degli uomini e quelle delle donne rispecchiava, più o meno esattamente, il rapporto fra docenti/ricercatrici e docenti/ricercatori nei bienni delle tornate di abilitazione (cfr. Tabella 11 ; Tabella 403 ). [129]

A questo proposito il rapporto ANVUR 2018 fa riferimento a «eventuali processi di autoselezione che potrebbero aver influito sul numero delle aspiranti» (p. 303). Ma la letteratura ci insegna che tale autoselezione è in diretto rapporto con un filtro di genere che opera sulle donne in ogni fase della carriera universitaria ( Filandri e Pasqua 2019 ; Abramo, D’Angelo e Caprasecca 2009 ; Abramo, D’Angelo e Rosati 2016 ; Baccini et al. 2014 ; Blickenstaff 2005 ; Benschop 2009 ; Foschi 1996 ; Jappelli, Nappi e Torrini 2017 ; Madera, Hebl e Martin, 2009 ; McLaughlin Mitchell, Lange e Brus 2013 ; MacNell, Driscoll e Hunt 2015 ; Murgia e Poggio 2018 ; Nielsen 2015 , 2017 ; Picardi 2020 ; Van den Brink e Benschop 2011 , 2013 ; cfr. Bibliografia tematica par. 2. Sulle questioni di genere).

In ogni caso, i nostri dati – che sono, come detto più volte, relativi a quanti sono già a vario titolo in servizio nell’università italiana – evidenziano percentuali di abilitate alla prima e alla seconda fascia più alte dell’incidenza femminile sui totali dei docenti/ricercatori. Se nel 2020 i professori ordinari sono per il 25,33% donne e per il 74,67% uomini, le abilitate alla prima fascia sono il 34,96% del totale degli abilitati alla prima fascia in servizio (cfr. Figura 5 ; Figura 268 ); se nel 2020 i professori associati sono per il 40,33% donne e per il 59,67% uomini, le abilitate alla seconda fascia sono il 43,83% degli abilitati alla seconda fascia in servizio (cfr. Figura 6 ; Figura 268 ).

Di contro, fra il 10,47% di abilitati alla prima fascia in ruolo (valore assoluto: 5.888) le donne rappresentano il 30,55% (cfr. Tabella 404 ), e solo il 29,41% del totale delle donne abilitate è entrata effettivamente in ruolo. Così fra il 25,85% di abilitati alla seconda fascia in ruolo (valore assoluto: 14.540) le donne sono il 42,84% (cfr. Tabella 406 ) e troviamo in ruolo il 59,39% delle donne abilitate, contro il 61,82% di abilitati in ruolo sul totale degli uomini abilitati. Che è evidentemente un miglioramento rispetto all’incidenza delle donne nelle due fasce. Tuttavia, se donne e uomini sono egualmente abilitati da procedure unificate a livello nazionale, il persistente gap femminile rimane spiegabile solo facendo riferimento a radicati pregiudizi di genere.

A questo proposito rimarchiamo che fra i ricercatori a tempo indeterminato abilitati alla seconda fascia, le donne sono il 51,36%. Il che ci pare un ulteriore indizio di passaggi di fascia più rapidi per gli uomini che per le donne.

Pare quindi evidente che filtri di genere operino a monte e a valle delle procedure di ASN: a monte limitano il numero delle donne che presentano domanda per l’abilitazione ( Baccini 2014 ; Baccini e Rosselli 2014 ; De Paola, Ponzo e Scoppa 2014 , 2017 ); a valle determinano per gli uomini maggiori probabilità di accedere ai concorsi che danno effettivamente accesso al ruolo e di vincerli ( Abramo, D’Angelo e Rosati 2016 ; De Paola, Ponzo e Scoppa 2018; Marini e Meschitti 2018 ; Gaiaschi e Musumeci 2020 ).

Ovviamente questo discorso vale per il passaggio alla prima fascia e per quello alla seconda limitatamente ai ricercatori a tempo indeterminato. Per gli RTD-B, come abbiamo visto, la selezione di genere opera in maniera particolarmente cruda all’ingresso probabilmente perché – oltre l’abilitazione – per il raggiungimento della posizione di professore associato non si frappongono ulteriori procedure selettive.

9.3. Divari territoriali e balcanizzazione

Come il divario di genere, anche gli squilibri territoriali si radicano nella storia, nell’economia e nella cultura del nostro Paese. Il ridimensionamento diversificato del sistema universitario italiano procede infatti con regolarità impressionante : più forte nelle Isole, al Sud e nelle regioni centrali; più modesto al Nord.

Riscontriamo tuttavia andamenti disuguali anche fra Nord Ovest e Nord Est, Sud continentale – a sua volta distinguibile in Sud Est e Sud Ovest (cfr. parr. 2.7. SUD E ISOLE. Docenti/ricercatori per regione e 2.8. Considerazioni sulle differenze regionali e di area geografica ) – e Isole. In più, non possiamo non rilevare come in ciascuna di queste aree vi siano regioni e persino città che manifestano segni di maggiore sofferenza o, al contrario, di relativo benessere.

Passando in rassegna tutte le aree, in un Nord dove le università dal 2008 al 2020 hanno perso il 5,09% dei docenti/ricercatori ( Tabella 13 ) e dal 2010/2011 al 2019/2020 hanno guadagnato l’8,10% di iscritti ( Tabella 154 ), nel Nord Ovest, dove i docenti/ricercatori sono diminuiti del 3,8% ( Figura 30 ) e gli iscritti sono aumentati del 17,41% ( Tabella 155 ) – lasciando da parte la piccolissima Valle d’Aosta, con la sua unica, e piccola anch’essa, università non statale [130] – vengono segnali di sofferenza dalla Liguria, dove dal 2008 al 2020 registriamo un calo di docenti/ricercatori del 22,15% ( Tabella 36 ) e dal 2010/2011 al 2019/2020 una decrescita di iscritti del 17,24% ( Tabella 159 ).

Nel Nord Est – dove invece i docenti/ricercatori sono diminuiti del 6,61% dal 2008 ( Figura 29 ), e gli iscritti sono diminuiti anch’essi del 2,97% dal 2010/2011 ( Tabella 155 ) – spicca l’andamento negativo del Friuli che dal 2008 al 2020 ha perso il 18,09% di docenti/ricercatori ( Tabella 36 ) e dal 2010/2011 al 2019/2020 il 15,32% di iscritti ( Tabella 159 ).

Fra le regioni del Centro – area in cui le università dal 2008 al 2020 hanno perso il 17,51% dei docenti/ricercatori ( Tabella 13 ), e dal 2010/2011 al 2019/2020 il 7,60% di iscritti ( Tabella 154 ) – l’Umbria negli stessi segmenti temporali registra il -24,72% di docenti/ricercatori ( Tabella 50 ) e il -15,43% di iscritti ( Tabella 161 ). Contemporaneamente, la Toscana perde il 22,40% dei docenti/ricercatori ( Tabella 50 ) ma “solo” il 5,55% degli iscritti ( Tabella 161 ).

Nel Sud e nelle Isole le università dal 2008 al 2020 hanno perso il 15,68% dei docenti/ricercatori ( Tabella 13 ) e dal 2010/2011 al 2019/2020 il 16,66% di iscritti Tabella 154 ).

La Puglia dal 2008 al 2020 ha un calo di docenti/ricercatori del 20,95% ( Tabella 66 ) – che è comunque inferiore a quelli dell’Umbria e della Toscana ma, anche, della Liguria – e dal 2010/2011 al 2019/2020 una decrescita di iscritti del 23,13% ( Tabella 163 ). La Basilicata e la Calabria perdono percentualmente soltanto una piccola quota di docenti/ricercatori (Basilicata -0,31%; Calabria -1,23%; cfr. Tabella 66 ), ma quote di iscritti superiori a quelle della Puglia (Basilicata -25,95%; Calabria -25,74%; cfr. Tabella 163 ).

La Sicilia è la regione che subisce le perdite più consistenti in tutto il Paese, poiché negli archi temporali presi in considerazione perde il 27,28% dei docenti/ricercatori ( Tabella 66 ) e il 28,97% degli iscritti ( Tabella 163 ).

In questa situazione così squilibrata, dall’osservazione degli andamenti regionali riscontriamo rari andamenti positivi, e quasi tutti al Nord.

Nei segmenti temporali considerati, nelle due università del Trentino Alto Adige i docenti/ricercatori crescono del 47,48% (+23,10% nell’Università di Trento e +197,87% nella Libera Università di Bolzano); gli iscritti crescono del 6,59% (+3,09% nell’Università di Trento e +24,51% nella Libera Università di Bolzano; cfr. Tabella 34 e Tabella 140 ). Il Trentino Alto Adige è però l’unica regione del Paese in cui, nell’università pubblica, crescono sia docenti/ricercatori che iscritti.

I docenti/ricercatori decrescono, infatti, nelle università della Lombardia (-0,99%), con perdite del 3,21% nel sistema delle università statali e guadagni del 1,36% in quello delle università non statali e del 11200,00% nelle telematiche [131] ( Tabella 138 ). Crescono però, e più che in ogni altra regione d’Italia, gli iscritti (+21,94%; cfr. Tabella 159 ), che aumentano del 17,92% nelle università statali, del 12,86% nelle università non statali e del 225,82% nelle telematiche (cfr. Pivot 2).

Analogamente in Piemonte i docenti/ricercatori decrescono del 2,64%. Il sistema statale perde il 2,84%, mentre l’unica Piccola università non statale piemontese guadagna un 70,00% di docenti/ricercatori passando da un numero di 10 a quello di 17 ( Tabella 139 ).

Anche in Piemonte crescono tuttavia gli iscritti (+19,52%; cfr. Tabella 159 ): del 17,57% nel sistema universitario statale e del 46,59% nell’università non statale (cfr. Pivot 2).

Gli unici altri segni positivi in tutto il Paese sono in Campania e in Basilicata.

In Campania dal 2010/2011 al 2019/2020 si registra una crescita di iscritti del 3,59% ( Tabella 163 ) che, però, vanno tutti alle università telematiche (+641,34%) mentre le università statali fanno registrare un decremento di iscritti del 16,90% e quelle non statali del 19,99% (cfr. Pivot 2).

In Basilicata, nell’unica università statale della regione dal 2008 al 2020 si registra un aumento di docenti/ricercatori dello 0,31% ( Tabella 66 ) ma, come abbiamo detto, la seconda maggiore perdita di iscritti dopo la Sicilia ( Tabella 163 ).

Proseguendo nei confronti possiamo trovare segnali contrastanti nelle iscrizioni alle scuole di dottorato che, dal 2008/2009 al 2019/2020, diminuiscono in Italia del 24,52% ( Tabella 281 ).

Nella decrescita degli iscritti al Nord (-12,72%; Tabella 283 ), decrescono differentemente Nord Ovest (-15,81%) e Nord Est (-9,15%). Tuttavia nel Nord Ovest gli iscritti alle scuole di dottorato diminuiscono del 39,19% in Piemonte e del 4,17% in Liguria. Nel Nord Est, gli iscritti alle scuole di dottorato aumentano del 65,63% in Trentino Alto Adige e diminuiscono del 23,45% in Friuli ( Tabella 287 ).

Nel medesimo arco temporale, gli iscritti alle scuole di dottorato nelle università delle regioni del Centro diminuiscono del 21,97% ( Tabella 283 ). Le scuole di dottorato dell’Umbria perdono però il 39,60% degli iscritti; quelle del Lazio “solo” il 10,34% ( Tabella 289 ).

Nel vero e proprio esodo di dottorandi del Sud e delle Isole (-42,07%; cfr. Tabella 283 ), le scuole di dottorato della Sicilia perdono il 62,10%, quelle della Puglia il 44,41%. Tuttavia in Molise riscontriamo un aumento del 54,67% negli iscritti (in valori assoluti: da 75 nel 2008/2009 a 116 nel 2019/2020; cfr. Tabella 291 ).

Potremmo continuare a lungo. Ad esempio con l’incidenza percentuale degli RTD-B, [132] che per le università del Nord è del 9,99, per quelle del Centro dell’8,41%, per quelle del Sud e delle Isole dell’8,43% (cfr. Pivot 1). Ma che tuttavia in Trentino Alto Adige è del 14,94% e in Friuli dell’8,22%; in Toscana è del 9,77% e in Lazio del 7,40%; in Campania è del 10,23% e in Basilicata del 6,10% ( Tabella 199 ).

Oppure osservando come docenti/ricercatori tutti egualmente abilitati da procedure unificate a livello nazionale, siano entrati in ruolo in misura maggiore o minore in Sedi diversamente collocate.

L’incidenza degli abilitati in ruolo sugli abilitati alla prima fascia in servizio nelle tre macro-aree geografiche è, infatti, del 36,16% al Nord; del 30,60% al Centro e del 32,21 al Sud e nelle Isole ( Tabella 409 ).

Ma l’incidenza degli abilitati in ruolo sugli abilitati alla prima fascia in servizio delle singole regioni italiane è del 43,97% in Trentino Alto Adige, 41,23% in Liguria, 39,44% nelle Marche, 35,66% in Campania e 11,2% in Basilicata, 13,90% in Umbria, 22,96% in Calabria, 29,21% in Friuli (cfr. Pivot 6).

Così come l’incidenza degli abilitati in ruolo sugli abilitati alla seconda fascia in servizio nelle tre macro-aree geografiche è il 63,22% nelle università del Nord, il 59,75% nelle università del Centro e il 57,74% nelle università del Sud e delle Isole ( Tabella 414 ).

Tuttavia l’incidenza degli abilitati in ruolo sugli abilitati alla seconda fascia in servizio nelle regioni italiane è del 62,94% in Sardegna, del 61,75% in Emilia Romagna, del 61,90% in Friuli e del 48,64% in Calabria, del 47,32% in Basilicata, del 46,67% in Val d’Aosta e del 45,68% in Molise.

In queste pagine abbiamo incontrato, insomma, un sistema che abbiamo definito ineguale, agonistico e antagonistico al suo interno, in cui i divari fra le tre macro-aree geografiche sono forti, ma sono rilevanti anche elementi di ulteriore frammentazione: le disparità fra le regioni di una stessa area geografica; le differenze fra diversi “sistemi universitari regionali”; gli squilibri all’interno delle regioni , dove alcune città crocevia economico/politici (e, spesso, anche di potere accademico) fungono da poli attrattivi a scapito delle altre province.

Siamo consapevoli che a questi esiti concorrono – oltre alla grandezza e alla tipologia degli atenei e le caratteristiche del sistema pubblico e privato della formazione terziaria, che abbiamo richiamato in queste righe – soprattutto i differenti contesti sociali, economici, territoriali e infrastrutturali in cui gli atenei sono inseriti. Ed anche del fatto che, come vasta letteratura ha già messo in luce, i criteri della distribuzione delle risorse e di disciplina delle possibilità di reclutamento che informano la legislazione in vigore vanno nella direzione di approfondire piuttosto che colmare differenze e divari ( Abramo e D’Angelo 2020 ; Asso e Trigilia 2016 ; Bonatesta 2016 ; Checchi et al. 2020 ; Fiorentino 2015 ; Fiorentino e Sanchirico 2017 ; Forges Davanzati e De Pascali 2017 ; Giannola 2016 ; Grisorio e Prota 2020 ; Manfredi e Asprone 2017 ; Pasimeni 2016 ; Prota e Grisorio 2017 ; Prota, Grisorio e Pavolini 2017 ; Reale 2019 ; Sestito e Torrini 2017 ; Viesti 2015a , 2015b , 2016 , 2017a , 2017b ).

Il ridimensionamento diversificato di docenti/ricercatori e iscritti del sistema universitario italiano, ferma restando la caratteristica di essere molto marcato al Sud, nelle Isole e nelle regioni centrali e sicuramente più modesto nel Nord, sta insomma avendo nel suo complesso esiti che ci sembrano paragonabili a una balcanizzazione , con quanto non solo di frammentazione del sistema universitario in sistemi regionali (e, talvolta, metropolitani ) ma, anche, di esaltazione e contrapposizione delle differenze e peculiarità di Sedi e indirizzi scientifico-disciplinari questo termine comporta.

A questi esiti non è estranea la politica che, sia pure travestendosi da policies – da decisioni apparentemente tecniche ( cfr. Viesti 2018 : 110-111; De Martin 2017 : 77) – piuttosto che colmare i divari fra i territori e disincentivare le tensioni, le controversie e le lotte di potere che nel campo scientifico [133] si dipanano fra tribù accademiche ( Becher 1989 ) e colleges invisibili ( Crane 1972 ) e visibili e geograficamente ubicati, ha scelto di alimentarli incorporandoli e inquadrandoli nelle cornici allettanti e giustificatorie della “concorrenza” e del “merito”.

In questi anni, la retroazione cumulativa sulle condizioni di esercizio della ricerca e della didattica di valutazioni positive e negative, premialità concesse e negate, rimodulazione delle quote di finanziamento pubblico e delle capacità assunzionali, ha generato un “effetto San Matteo” [134] ( Merton 1968 ; Rigney 2010 ) che ha non soltanto coinvolto il prestigio delle diverse Sedi ma che ha anche avuto notevoli ricadute sulla qualità del pubblico servizio che la formazione terziaria rappresenta. In alcune zone, getting poor poorer , tale effetto rischia di introdurre/approfondire veri e propri divari di cittadinanza [135] fra studenti che avrebbero tutti diritto a fruire della medesima qualità negli studi. Senza contare che in alcuni territori le università stanno progressivamente smarrendo la funzione di volano di crescita civile, culturale ed economica dei territori che storicamente svolgono.

Non è tuttavia negli intenti di questo rapporto approfondire i nessi causali e le concorrenze che hanno contribuito e contribuiscono a questa frammentazione del sistema universitario nazionale. Molti lo hanno fatto prima di noi ed auspichiamo di stare fornendo strumenti utili a quanti vorranno ancora farlo.

Vorremmo tuttavia richiamare l’attenzione sulla legge 232/2016 . Quella, cioè, che ha introdotto finanziamenti aggiuntivi a 180 dipartimenti delle università statali definiti “di eccellenza” ( Bertoli-Barsotti 2017 ; De Nicolao 2017 ; Matarazzo 2017 ; Semplici 2017 ; Sestito e Torrini 2017 ; Viesti 2017b , 2017c , Ialacqua 2018 ).

La legge 232/2016 , si pone in continuità con gli intenti e gli indirizzi della normativa in vigore al momento della sua promulgazione – e fa infatti esplicitamente ricorso agli strumenti della VQR – ma differentemente dalla precedente normativa è nella sua stessa concezione espressamente volta a pianificare l’“effetto San Matteo” e ad approfondire i divari esistenti, poiché premia chi è stato già premiato ed esclude chi è stato già escluso ( Viesti, 2107b ).

Per i motivi già esposti (cfr. par. 8.2. Legge 232/2016: docenti/ricercatori per aree CUN ), è piuttosto complicato confrontare i dipartimenti “eccellenti” – che per partecipare alla selezione hanno dovuto ascriversi a un’area CUN – e i dipartimenti “generici”. Dunque, per avere un’idea degli effetti che questo intervento legislativo sta producendo, abbiamo osservato le crescite percentuali dei docenti/ricercatori nei dipartimenti finanziati per la legge 232/2016 delle 20 regioni italiane, comparandole con le crescite, o le decrescite, degli “altri” dipartimenti. Il confronto ci ha permesso di constatare come questo provvedimento approfondisca i divari fra le regioni (cfr. par. 8.1. I dipartimenti finanziati per la legge 232/2016 nelle regioni ).

Tuttavia, l’organizzazione dei nostri dati non ci ha permesso per il momento di verificare quanto questa legge abbia contribuito ad approfondire anche i divari nelle regioni, enfatizzando un’altra caratteristica storica del nostro sistema universitario, in cui i grandi poli universitari sono perlopiù ubicati in città che sono anche crocevia di poteri economici/politici/accademici.

Come abbiamo già notato, i dipartimenti finanziati in Lombardia sono 29, in 8 atenei sui 9 della regione. Di questi, 20 sono in 3 atenei ubicati nella sola Milano, città che raccoglie il 68,97% dei dipartimenti finanziati dell’intera regione ( Tabella 489 ): il 18,87% dell’intero Nord; l’11,11% dell’intero Paese.

Così – sia pure con incidenze inferiori sull’area e sul Paese – la città di Torino concentra in 2 atenei l’88,24% dei dipartimenti finanziati in Piemonte [136] ( Tabella 492 ) e la città di Bologna, in un solo ateneo 14 dipartimenti finanziati, il 66,67% dell’Emilia Romagna [137] ( Tabella 498 ).

Al Centro, Roma concentra in tre atenei il 77,78% dei dipartimenti finanziati nel Lazio e il 28,57% dell’intero Centro [138] ( Tabella 510 ). Nel Sud e nelle Isole, i tre atenei statali di Napoli concentrano il 63,64% dei dipartimenti finanziati nella Campania e il 28,00% di tutta l’area [139] ( Tabella 527 ).

Come già nel 2017 scriveva Gianfranco Viesti, i «prescelti avranno per cinque anni molte più risorse degli altri: potranno reclutare nuovi docenti; dovranno obbligatoriamente attrarne una quota dagli altri Dipartimenti. Potranno fregiarsi del titolo per un aggressivo marketing nei confronti degli studenti. Questo produrrà effetti a palla di neve» ( Viesti 2018 : 95 ).

9.4. Altre frammentazioni

Il fenomeno di frammentazione e antagonismo connesso con forme divisive di esercizio del potere che abbiamo definito balcanizzazione – intrecciandosi ancora una volta e costantemente con la dimensione geografica e i divari strutturali del Paese – coinvolge anche l’organizzazione interna del lavoro di creazione e trasmissione della conoscenza nelle sedi universitarie e nei campi scientifico-disciplinari.

Gli interventi della legge 232/2016 – mentre concentrano gli interventi su pochi soggetti, di fatto programmando una più decisa e rapida polarizzazione su alcune sedi universitarie e una più celere decadenza di altre [140] – ci sembrano inoltre disposti ad aprire linee di faglia anche all’interno delle singole università, la cui unitarietà è rotta da un indirizzo legislativo che le considera per segmenti piuttosto che come complessità organizzata.

Uno degli elementi da tenere in considerazione a questo proposito è, ad esempio, il limite massimo di 15 dipartimenti finanziabili per università e il gioco complesso che si innesca fra dimensione dell’ateneo – e dunque il numero dei suoi dipartimenti – e numero dei dipartimenti finanziati.

Grazie a questo impianto la norma penalizza le Sedi più grandi e istituisce disparità in particolare fra i Mega atenei, nei quali il numero dei dipartimenti varia dai 59 della Sapienza ai 19 di Catania. Per fare degli esempi, per l’impianto della legge La Sapienza avrebbe potuto ottenere al massimo il 25% di dipartimenti finanziati, mentre Bologna o Padova – con i loro 32 dipartimenti – sarebbero potute arrivare al 47%, e Catania addirittura all’80%.

Di fatto, poi, Roma La Sapienza ha avuto finanziati il 14% dei suoi dipartimenti, Bologna e Padova hanno avuto finanziati rispettivamente il 44% e il 41% dei loro dipartimenti, Catania il 5,3%.

D’altro canto, le università Medie o Piccole avrebbero potuto competere anche con il 100% dei loro dipartimenti. Il caso non è ipotetico visto che la Piccola Università per Stranieri di Siena ha un solo dipartimento che è risultato fra i finanziati, [141] mentre la Media università di Trento aveva il 91% dei suoi dipartimenti fra quelli ammessi, ed ha avuto il 73% di dipartimenti finanziati. [142]

Prendere in esame il numero dei dipartimenti esistenti e confrontarlo con il numero di quelli finanziati può essere, però, solo uno spunto iniziale per indagini e considerazioni più articolate.

Gli impatti divisivi che gli aumentati finanziamenti di alcuni dipartimenti stanno avendo sulle diverse università considerate come insiemi complessi, andrebbero infatti valutati caso per caso.

Oltre che nelle università – dove le disparità fra dipartimenti “ricchi” e “poveri” stanno diventando vieppiù evidenti – gli effetti di questa legge possono rivelarsi perniciosi fino all’interno degli stessi dipartimenti finanziati, in cui si prospettano difficili convivenze tra docenti/ricercatori dell’area “eccellente” e free riders delle aree di “non eccellenza”.

I dati quantitativi – almeno i nostri – non riescono ad entrare in questo dettaglio e, data la relativa novità del tema, su questi ultimi due oggetti a nostra conoscenza neppure esiste ancora una ricerca qualitativa.

Nel 6. Docenti/ricercatori nelle aree CUN abbiamo potuto constatare che dal 2008 al 2020 il gioco fra le maggiori e minori decrescite dei docenti/ricercatori nelle aree CUN ha modificato la distribuzione geografica degli afferenti alle aree (e dunque, presumibilmente, anche ai settori concorsuali), sbilanciando gli equilibri verso il Nord (cfr. Tabella 362 e Tabella 363 ; cfr. par. 6.15. Aree CUN: atenei statali e non statali e aree geografiche ).

Andando maggiormente nel dettaglio – noi non lo abbiamo fatto, ma l’organizzazione dei nostri dati lo rende possibile – potremmo anche vedere le incidenze percentuali degli afferenti per aree CUN e per regione e le loro variazioni e rendere ancor più “trasparente” questo spostamento dei pesi (cfr. Pivot 1).

Questi movimenti non rimangono senza effetto sugli equilibri interni delle aree CUN e dei settori concorsuali. Come abbiamo già accennato, ogni campo scientifico si presenta segmentato in scuole, indirizzi, prospettive metodologiche, tendenze e impostazioni che informano le academic tribes ( Becher 1989 ) e si incarnano in invisible colleges ( Crane 1972 ), che sono tuttavia connessi a quelli visibili e ubicati in università e dipartimenti, in una struttura di appartenenze multiple. Nelle Sedi sono dunque i nodi delle reti in cui si incarna, tra le altre cose, la varietà interna delle discipline. Un troppo pronunciato spostamento degli equilibri è gravido di conseguenze anche per la coesistenza della pluralità, per la variabilità e la ricchezza interna, per la complessità delle aree scientifiche e degli ambienti e per i modi in cui la scienza si produce, si cumula, si scambia (senza contare che si riverbera presumibilmente sulle procedure ASN, sui concorsi locali, sul reclutamento degli RTD-B e sulla costruzione dei curriculum).

Anche in questo caso, la legge 232/2016 , soprattutto nei modi della sua attuazione, ci sembra introdurre ulteriori elementi di frammentazione del sistema e di concentrazione del potere accademico, oltretutto affidando a decisioni ministeriali quali siano gli «obiettivi di crescita e miglioramento» delle «aree della ricerca scientifica e tecnologica italiana». [143]

Come abbiamo visto durante la trattazione, il numero dei dipartimenti finanziabili (e poi finanziati) per area CUN è stabilito dal D.M 262 dell’11 maggio 2017 all’interno dei limiti minimi e massimi stabiliti dalla legge 232/2016 . Tale assegnazione non tiene conto della numerosità degli afferenti alle aree CUN ( Tabella 544 , Figura 311 , Figura 312 ). Il decreto dichiara piuttosto di aver tenuto conto del «numero dei Dipartimenti attivi al 1° gennaio 2017, considerando come area di riferimento quella cui afferisce a tale data il maggior numero di docenti». [144] Tuttavia esso si applica all’elenco dei 352 dipartimenti ammessi alla selezione, pubblicato il 12 maggio 2017, in cui sono indicate le “aree preminenti” segnalate dall’ISPD, spesso più di una per dipartimento (media 1,74).

Abbiamo confrontato l’elenco dei dipartimenti finanziabili con la numerosità degli afferenti alle aree CUN nelle università statali ( Tabella 544 , Figura 312 ), con il numero totale dei dipartimenti di “area preminente” e con il numero di dipartimenti di “area preminente” ammessi ( Tabella 542 , Figura 313 , Figura 314 ). Ogni confronto effettuato evidenzia che l’assegnazione del numero di dipartimenti finanziabili non è proporzionale alla grandezza su cui si esercita, di modo che alcune aree CUN risultano a priori favorite ed altre penalizzate.

Nei dati estratti il 31 dicembre 2020 – dunque all’incirca alla metà del primo quinquennio di applicazione della legge – non abbiamo tuttavia potuto rilevare effetti chiaramente percepibili (né chiaramente attribuibili ai finanziamenti della legge 232/2016 ) sulla crescita/decrescita di incidenza percentuale delle aree CUN sul totale dei docenti/ricercatori ( Figura 314 ).

Tuttavia, se ogni campo scientifico è caratterizzato da conflitti fra i gruppi e le reti che lo costituiscono ed è anche capace di incessanti variazioni e ricomposizioni degli equilibri che formano la sua coesione, ciò può accadere solo fintantoché la configurazione delle reciproche posizioni rimane dinamica. La legge 232/2016 introduce invece elementi di rigidità in questo gioco complesso. Gli «effetti a palla di neve» ( Viesti 2018 : 95) a favore di dipartimenti in cui inevitabilmente non sono presenti tutte le possibili declinazioni di un campo disciplinare ci sembra foriero di cambiamenti profondi nelle comunità scientifiche italiane. La prospettiva di retroazioni cumulative innescate da successivi quinquenni di ripetuti finanziamenti erogati a una “eccellenza” a numero chiuso e predeterminato dal decisore politico ci pare infatti prospettare non solo la crescita eterodiretta di alcune aree scientifiche ma anche, all’interno di esse, delle tendenze, scuole, gruppi e reti accademicamente più forti, rinforzando l’ effetto San Matteo già in atto fra e in le aree disciplinari.

9.5. Ricerca e didattica a tempo determinato

Gli interventi legislativi sull’università italiana sono stati frequenti negli ultimi vent’anni. Alcuni, principalmente quelli relativi ad alcuni criteri di premialità o di “virtuosità” finanziaria, hanno agito in combinazione con le caratteristiche storiche del Paese. Altri – come la legge 232/2016 e il D.M. 262/2017 – sono intervenuti e stanno intervenendo d’imperio sulle caratteristiche del sistema.

Così anche la legge 230/2005 (la c.d. “legge Moratti”) che – mettendo in esaurimento i ricercatori a tempo indeterminato e introducendo i ricercatori a tempo determinato – ha per prima stabilito che la ricerca universitaria andasse affidata prevalentemente a personale temporaneo.

Come è noto, questa risoluzione è stata ripresa e accelerata ma anche trasformata dalla legge 240/2010 , (c.d. “legge Gelmini”), che – oltre a diversificare i destini delle due figure di ricercatore a tempo determinato che ha introdotto (quelli di tipo B, avviati piuttosto sicuramente alla stabilizzazione, quelli di tipo A che possono invece essere considerati “precari”) – ha anche attribuito loro compiti di didattica che la legge del 2005 non prevedeva.

L’attuale fase del pre-ruolo è caratterizzata, per usare le parole del CUN (2019) , da «eterogeneità e frammentazione dei percorsi ai fini sia della formazione alla ricerca sia del reclutamento». Esistono tre diverse figure in pre-ruolo, con tre tipi di contratto: borse di studio e di ricerca [145] , assegni di ricerca, contratti da ricercatore a tempo determinato di tipo A.

Non siamo in grado di quantificare le borse di studio e di ricerca. I dati USTAT-Miur sui “ Collaboratori in attività di ricerca unificano borse di studio e di ricerca per laureati, contratti di prestazione autonoma per programmi di ricerca, contratti di formazione specialistica dei medici e tecnologi a tempo determinato più una categoria denominata “Altro” (cod.99), senza specificare l’area CUN e l’estensione temporale dei contratti. Dal 2015 al 2019 nell’università italiana si sono stipulati in media 51.780 di questi contratti all’anno ( Tabella 225 ).

I titolari di assegno di ricerca, invece, sono chiaramente quantificabili e, in media, dal 2012 al 2020 sono 14.787,55 ( Tabella 217 ). Così gli RTD-A, che nel 2020 sono 4.886 e dal 2016 al 2019 sono stati reclutati in media nella misura di 1.431 all’anno [146] ( Tabella 208 ; crescita media della fascia nello stesso arco temporale 385,8 unità all’anno, cfr. Tabella 207 ).

Nello stesso arco temporale, il reclutamento medio degli RTD-B – vale a dire di quanti possono aspirare con ragionevole ottimismo a una stabilizzazione – è stato di 1.385 unità all’anno [147] ( Tabella 194 ; crescita media della fascia 789,6 unità all’anno, cfr. Tabella 193 ).

In ogni caso, nell’attuale impianto normativo la ricerca è progettata come permanentemente precaria (cfr. Figura 98 ) .

Tale scelta è discutibile – tant’è che viene costantemente discussa, e messa in discussione anche da proposte di legge [148] e da rilievi del CUN [149] – ma non è negli intenti di questo rapporto discuterla.

Vorremmo piuttosto soffermarci su un altro aspetto della precarizzazione, cui il CUN accenna soltanto nel documento già citato, attribuendolo a cause come l’«inadeguato finanziamento» e l’assetto normativo che ha previsto blocco e poi limitazione del turnover, le quali , determinando la drastica riduzione del personale docente in organico, hanno favorito il «ricorso crescente a diversi ruoli temporanei, necessari per sostenere le indispensabili attività di ricerca e didattiche» (CUN 2019).

Stiamo parland o, appunto, della precarizzazione della didattica . Ricordiamo che, ancora nella legge 230/2005 (la c.d. Moratti), è stata introdotta la figura del professore Straordinario a tempo determinato, che ha avuto una limitata diffusione, in particolar modo nelle università non statali e nelle telematiche. Tuttavia la didattica universitaria è da tempo e per gran parte nelle mani di una figura che pre-esiste alle due riforme ma compare piuttosto raramente nel dibattito pubblico: il docente a contratto.

Questi docenti sono assunti con contratti di diritto privato della durata di un anno accademico, rinnovabili annualmente per un periodo massimo di cinque anni. Quelli che qui specificatamente ci interessano sono quanti – coerentemente con l’art. 23 della legge 240/2010 – sono chiamati a fare fronte a specifiche esigenze didattiche.

Dall’anno accademico 2014/2015 all’anno accademico 2018/2019 – questo è l’arco temporale coperto dai dati messi a nostra disposizione dall’USTAT-Miur – i contratti di docenza sono in media 28.526,6 all’anno: più o meno un docente a contratto ogni due docenti/ricercatori (media 1,92; Tabella 235 ).

Se dal 2014/2015 al 2018/2019 in media i docenti a contratto rappresentano il 34,25% dei docenti impegnati nella didattica universitaria ( Tabella 235 ) e sono il 52,11% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato, nelle diverse aree del Paese queste medie variano anche notevolmente (cfr. par. 5.5. Docenti a contratto ).

Dal 2014/2015 al 2018/2019 nel Nord Ovest i docenti a contratto rappresentano in media il 42,50% dei docenti impegnati nella didattica universitaria e sono in media il 73,93% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Nel Nord Est i docenti a contratto rappresentano in media il 33,55% dei docenti impegnati nella didattica universitaria e sono in media il 50,56% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Ricordiamo che nel periodo preso in esame i docenti/ricercatori a tempo indeterminato e determinato nel Nord Ovest sono aumentati dell’1,41% e i docenti a contratto del 7,99% mentre nel Nord Est i docenti/ricercatori sono cresciuti dello 0,93% e i docenti a contratto sono diminuiti dell’8,03% (cfr. par. 5.5.1. Docenti a contratto nelle regioni del Nord ).

Dal 2014/2015 al 2018/2019 nelle università del Centro i docenti a contratto rappresentano in media il 36,92% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 59,64 % del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Nel Centro, nel periodo preso in esame, i docenti/ricercatori a tempo indeterminato e determinato hanno subito un calo del 3,65% e i docenti a contratto sono aumentati del 17,47% (cfr. par. 5.5.2. Docenti a contratto nelle regioni del Centro ).

Nelle università del Sud continentale, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 25,21% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 33,73% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Nelle Isole, i docenti a contratto rappresentano in media il 20,20% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 25,34% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Ricordiamo che nel periodo preso in esame i docenti/ricercatori a tempo indeterminato e determinato nel Sud continentale si sono ridotti dello 0,21% e i docenti a contratto sono aumentati del 5,86%; nelle Isole i docenti/ricercatori a tempo indeterminato e determinato sono diminuiti dell’ 11,14% e i docenti a contratto aumentati del 3,15% (cfr. par. 5.5.3. Docenti a contratto nelle regioni del Sud e nelle Isole ).

Questi andamenti sembrerebbero smentire l’ipotesi che vi sia un rapporto diretto fra la crescita della docenza a contratto e la decrescita dei docenti e ricercatori a tempo indeterminato e a tempo determinato. La maggiore incidenza dei docenti a contratto sul totale della docenza non è certamente nelle situazioni dove più forte è il decremento dei docenti/ricercatori a tempo indeterminato e determinato.

Fra i molti fattori da prendere in considerazione (es. numero dei corsi attivati, numerosità degli studenti, disponibilità economiche) incide anche la tipologia dell’ateneo (cfr. par. 5.5.4. Docenti a contratto per grandezze e tipologie degli atene i; Tabella 271 ).

Nelle università statali, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 28,80% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 40,46% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Nelle università non statali, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 68,83% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 221,22% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. [150] Nelle università telematiche, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 62,40% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 166,83% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato ( Tabella 272 ).

Infine, se nelle università italiane insegna più o meno un docente a contratto ogni due docenti/ricercatori (media 1,922), in almeno metà delle aree CUN questo rapporto è, però, ben più alto (cfr. par. 6. 17. Docenti a contratto per aree CUN ).

Ad esempio, nell’anno accademico 2018/2019 in Area 14 – Scienze Politiche e Sociali, i docenti/ricercatori erano 1.669 e i docenti a contratto 1.629 ( Tabella 389 ). Senza arrivare a questi estremi, dal 2014/2015 al 2018/2019 l’impiego dei docenti a contratto incide diversamente da un’area all’altra ma, comunque, quasi sempre in misura molto rilevante. [151] Fra le medie del numero di docenti a contratto rispetto a quello di docenti/ricercatori più alte del 50%, andiamo dal 57,03% in Area 12 – Scienze giuridiche, al 72,86% dell’Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche, fino appunto all’Area 14 con la sua media dell’84,59% di docenti a contratto rispetto al numero dei docenti/ricercatori ( Figura 251 ).

9.6. Un personale sovraqualificato

La stessa legge che ha precarizzato la ricerca ha anche introdotto l’Abilitazione Scientifica Nazionale.

A 7 anni dai primi esiti della prima tornata del 2012/2013, dopo 77.464 procedure di abilitazione con esito positivo, abbiamo una media di 1 abilitato entrato nel “suo” ruolo ogni 3,5 procedure di abilitazione “andate a buon fine”. Le procedure di abilitazione con esito positivo sono state 26.919 alla prima fascia (34,75%) e 50.545 alla seconda fascia (65,25%). Le prime hanno prodotto 5.975 [152] docenti/ricercatori entrati nel ruolo di professori ordinari (22,20%); le seconde 16.136 [153] docenti/ricercatori entrati nel ruolo di professori associati (31,92%).

Fra quanti sono nelle fila dei docenti/ricercatori a tempo indeterminato o determinato abbiamo un gran numero di abilitati alla prima fascia attualmente in servizio in una fascia inferiore a quella cui hanno dimostrato di appartenere: sono circa il 54% degli abilitati (valore assoluto 11.607) di cui circa il 92% professori associati (valore assoluto 10.651) (cfr. Tabella 394 ; Tabella 395 ).

Fra gli abilitati alla seconda fascia in servizio ci sono 9.392 docenti/ricercatori (circa il 24%) che non ricoprono il ruolo di professori associati (cfr. Tabella 399 ). Tuttavia, i 4.013 RTD-B (16,77% degli abilitati alla seconda fascia in servizio) saranno con ragionevole certezza immessi in ruolo alla fine del loro triennio e 1.034 dei i 3.224 ricercatori a tempo indeterminato (13,47% degli abilitati alla seconda fascia in servizio) dovrebbero essere “esauriti” entro il 2022. [154]

Sono dunque “soltanto” i 2.107 RTD-A (8,80% degli abilitati alla seconda fascia in servizio) a non avere garanzie per l’accesso al ruolo della docenza. Se, però, li sommiamo ai 13.156 abilitati alla seconda fascia “esterni” al sistema (cfr. Tabella 398 ), vediamo che gli abilitati alla seconda fascia che rischiano di lasciare inutilizzata la loro abilitazione sono appena un po’ meno di quelli che hanno visto soddisfatte le loro legittime aspettative.

Ciò che, infatti, vogliamo soprattutto far notare è che le procedure di abilitazione “andate a buon fine” hanno prodotto un gran numero di abilitati [155] “esterni” al sistema della ricerca universitaria italiana censito nel sistema Miur-Cineca. Presumibilmente – anche se non abbiamo i mezzi per accertarlo – la maggior parte di essi si trova nelle fila del variegato mondo del “precariato”. Si tratta all’incirca di 3.372 abilitati alla prima fascia (il 15,66%; Tabella 394 ) e di 13.156 abilitati alla seconda fascia (il 33,19%; Tabella 398 ).

In breve, circa il 70% degli abilitati alla prima fascia e circa il 50% degli abilitati alla seconda fascia – e arriviamo a questa percentuale solo sottraendo da questi ultimi quanti possono ragionevolmente sperare di entrare più o meno celermente nel ruolo al quale sono abilitati – sono sovraqualificati per il ruolo che occupano ( Maynard e Joseph 2008 ; Jaeger e Eagan 2009 ; Bender e Heywood 2011 ; Stephen 2012 ; Eagan, Jaeger e Grantham 2015 ) e non hanno ancora potuto utilizzare un titolo costato molta fatica, molto tempo e molto lavoro di candidati ed esaminatori.

9.7. Meritevoli ed espulsi

Nel paragrafo sugli abilitati alla seconda fascia abbiamo visto che dei 1.118 abilitati che non sono più conteggiati fra i docenti/ricercatori nel database Miur-Cineca ci sono 574 RTD-A (cfr. Tabella 401 ). Sono la punta dell’iceberg dell’espulsione di elementi altamente qualificati dal sistema universitario italiano.

Nella zona liminare fra l’appartenenza e l’esclusione che siamo soliti chiamare “precariato” nel 2020 si trovano, come abbiamo già enumerato, 4.886 RTD-A [156] e 14.476 assegnisti di ricerca. [157] Nel 2019 c’erano un numero non precisato di collaboratori alle attività di ricerca la cui attività è frammentata in un numero di contratti che si avvicina ai 60.000 all’anno [158] , e circa 30.000 docenti a contratto [159] . Sono senza dubbio molte le sovrapposizioni fra assegnisti, collaboratori e docenti a contratto, tuttavia è arduo, se non impossibile, conteggiare quante.

In ogni caso, è probabilmente tra queste figure che dobbiamo cercare gli oltre 16.000 abilitati alla prima e alla seconda fascia che non rintracciamo nel database Miur-Cineca.

Questo numero di ricercatori e docenti grande e imprecisato, nel quale è lecito ipotizzare si trovino alte percentuali di abilitati alla docenza, ha come unico sbocco per la stabilizzazione l’ottenimento di un contratto da RTD-B. E, lo abbiamo visto, dal 2016 al 20 19 , la media dei contratti da RTD-B, in Italia, è stata di circa 1.385 all’anno ( Tabella 194 ).

È inevitabile ipotizzare, quindi, che questi ricercatori – sulla cui altissima formazione il Paese, l’università, le famiglie, i ricercatori stessi, hanno fortemente investito – saranno per la maggior parte espulsi dal sistema della ricerca italiano.

Potremmo riprendere a questo proposito l’analisi del CUN riguardo ai «problemi del precariato e dell’accesso al ruolo della docenza», e richiamare una volta di più l’inadeguato finanziamento e l’assetto normativo riguardante il turnover.

Ci pare, tuttavia, che le dimensioni di questo problema, come di molti altri che abbiamo qui enumerato, siano tali da imporre un ripensamento più generale del sistema.


Note al capitolo

[118] Ns. elaborazione dati USTAT-Miur, Iscritti per anno accademico. Numero di studenti che si sono iscritti per a.a. di immatricolazione – serie storica a partire dall’a.a. 1998/99: Tabella 152 .

[119] Ns. elaborazione dati USTAT-Miur, Laureati per anno. Numero di studenti laureati per anno solare di laurea.

[120] Ns. elaborazione dati USTAT-Miur, Dottorati di ricerca – Iscritti per ateneo. Iscritti Dottorati di ricerca. Dati per Ateneo – Serie Storica: Tabella 282 .

[121] Ns. elaborazione dati USTAT-Miur, Dottorati di ricerca – Diplomati per anno. Diplomati Dottorati di ricerca. Dati nazionali – Serie Storica.

[122] Ci siamo fermati al 2019 per coerenza con i dati degli Iscritti, dei Laureati, degli iscritti alle Scuole di Dottorato e dei Dottori di Ricerca per i quali l’ultimo anno di cui disponiamo della rilevazione è il 2019/2020.

[126] Questo dato, contrariamente agli altri, si riferisce al numero dei contratti e non dei soggetti perché dai dati non emerge la durata temporale del contratto. Dunque uno stesso soggetto potrebbe essere titolare di più contratti in un anno. Fonte: ns. elaborazione dati USTAT-Miur, “ 2015-2019 Collaboratori in attività di ricerca. Dati relativi al personale universitario: borse di studio e di ricerca per laureati, contratti di prestazione autonoma per programmi di ricerca, contratti di formazione specialistica dei medici, tecnologi a tempo determinato ”, Figura 131 .

[127] Ns. elaborazione dati USTAT-Miur, “ Serie Personale Accademico – profilo. Serie storica dal 2012 del personale docente e ricercatore disaggregato per genere, classe di età, ateneo, area geografica e grade (codifica internazionale della qualifica)”, Tabella 192 .

[129] Nel 2012/2013 le domande da parte di donne sono state il 36,73% e nel 2016/2017 il 37,47%. Nel 2012 l’incidenza delle donne sul totale dei docenti/ricercatori era del 36,13%; nel 2013 del 36,46%. Nel 2016, l’incidenza delle donne sul totale era del 37,09%; nel 2017 del 37,41%, Tabella 11 .

[130] L’Università della Valle d’Aosta dal 2008 al 2020 ha perso il 12,50% dei suoi docenti/ricercatori (Nord -5,09%) e dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020 ha perso il 17,77% dei suoi iscritti (Nord +8,10%). Per quanto attiene il ricambio dei suoi strutturati, nell’Università della Valle d’Aosta gli RTD-B (1, in valore assoluto, assunto nel 2020) costituiscono il 2,08% della somma fra docenti/ricercatori a tempo indeterminato e RTD-B (Nord 9,99%). Gli abilitati alla seconda fascia in ruolo sono il 14,29% dei docenti/ricercatori (Nord 27,74%). Tuttavia gli abilitati alla prima fascia in ruolo sono il 12,24% dei docenti/ricercatori (Nord 11,63%).

[131] Questa percentuale è calcolata sulla crescita dal 2009 al 2020, in valori assoluti da 1 docente/ricercatore nel 2009 a 113 nel 2020.

[132] Ricordiamo che abbiamo calcolato questo “indice di ricambio” calcolando la percentuale di RTD-B sulla somma di docenti/ricercatori a tempo indeterminato, nei quali abbiamo compreso gli stessi RTD-B, considerati come professori associati “in pectore”.

[133] Per la nozione di “campo scientifico” cfr . Bourdieu (1975 , 1976 , 2001 ). Sulle controversie scientifiche si veda Baltas, Machamer e Pera (2000) .

[134] L’ effetto San Matteo indica un processo per cui – come nel versetto 25,29 del Vangelo di Matteo – «a chiunque ha sarà dato […] a chi non ha sarà tolto anche quello che ha».

[135] La nozione di “divario di cittadinanza” è utilizzata da Luca Bianchi e Antonio Fraschilla (2020 ).

[136] Il 14,15% dell’intero Nord; 8,33% dell’intero Paese.

[137] Il 13,21% dell’intero Nord; 7,78% dell’intero Paese.

[138] Il 7,78% dell’intero Paese.

[139] Il 3,89% dell’intero Paese.

[140] I finanziamenti aggiuntivi della legge 232/2016 non derivano da capitoli di spesa aggiuntivi e sono una voce del FFO.

[141] Le Piccole università hanno ottenuto in tutto 9 dipartimenti finanziati a livello nazionale, di cui 4 nel Lazio. L’università della Tuscia ha avuto finanziati il 50% dei suoi dipartimenti. L’università di Cassino, con 1 dipartimento su 5, il 20%. Nell’università del Sannio è stato finanziato 1 dipartimento su 3 (33%); nell’Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria 1 su 6 (16,67%); nell’Università degli studi di Foggia 1 su 7 (14,29%), nell’Università degli studi di Teramo 1 su 10 (10%).

[142] Il numero dei dipartimenti è stato ricavato dai siti web delle università citate.

[144] A nostra conoscenza non è stato pubblicato un elenco dei 766 dipartimenti delle università statali (tanti ne indica l’ANVUR nel suo Rapporto 2018 ) con aree CUN di riferimento in relazione alle aree CUN degli afferenti.

[145] «Le borse di studio e di ricerca per il periodo di post-Dottorato arricchiscono la formazione dei giovani e permettono la realizzazione di progetti già in base al dettato della legge 398/1989: prevedono il tempo pieno e non è possibile cumularle con eventuali compensi per la didattica» ( CUN, adunanza del 25 settembre 2019 ).

[146] Tali dati sono stati forniti da Daniele Livon nel suo intervento “ Le politiche di reclutamento delle Università tra VQR e ASN ” nel convegno L’esperienza della valutazione della ricerca in Italia: un primo bilancio , organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei e tenutosi sulla piattaforma Zoom, Canale Lincei, il 24 febbraio 2021

[147] Ibidem .

[150] Nel dettaglio, dal 2014/2015 al 2018/2019 i docenti a contratto sono in media il 64,66% del totale della docenza (T.I +T.D + docenti a contratto) delle Grandi Università non statali; il 79,06% del totale della docenza delle Medie Università non statali; il 65,37% del totale della docenza delle Piccole Università non statali.

[151] Sotto il 20% sono solo l’Area 03 – Scienze Chimiche, l’Area 07 – Scienze Agrarie e Veterinarie, l’Area 04 – Scienze della Terra e l’Area 05 – Scienze Biologiche.

[152] 5.888 in ruolo al 31 dicembre 2020; 87 usciti nel ruolo di professori ordinari.

[153] 14.540 in ruolo al 31 dicembre 2020; 141 usciti nel ruolo di professori associati; 1427 passati alla prima fascia; 28 usciti nel ruolo di professori ordinari (dopo ulteriore passaggio di fascia).

[155] Nel 7. Gli abilitati abbiamo distinto le abilitazioni dagli abilitati e dalle 77.464 abilitazioni abbiamo selezionato un totale di 61.162 abilitati : 21.529 alla prima fascia e 39.633 alla seconda.

[156] Cfr. Tabella 207 ; fra essi 2.107 abilitati alla seconda fascia: il 43% ( Tabella 399 ).

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