Per citare questo rapporto:
Stazio M., Traiola M., Napolitano D. (2021), 2008-2020. Rapporto sull’università italiana, unrest–net.it: https://www.unrest-net.it/rapporto-sulluniversita-italiana/ ISBN 9791220085991
Sintesi del contesto e dei dati
I dati elaborati nel rapporto riguardano l’università italiana e i suoi i docenti/ricercatori a tempo indeterminato e a tempo determinato, gli iscritti alle classi di laurea triennali e magistrali, gli iscritti alle scuole di dottorato, gli assegni di ricerca, i contratti di collaborazione in attività di ricerca, i docenti a contratto e le abilitazioni.
L’osservazione parte dal 2008: da quando, cioè, durante il governo Berlusconi III, con la legge 133/2008, è iniziata una pesante stagione di tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario delle università e ai fondi per il Diritto allo Studio, accompagnata e governata dai profondi cambiamenti normativi, organizzativi e gestionali seguiti alla legge 240/2010, la così detta “legge Gelmini”.
Il Fondo di Finanziamento Ordinario è ritornato soltanto nel 2018 a livelli paragonabili a quelli del 2007. Nel 2020, quando attraverso alterne fasi è cresciuto del 9,87% rispetto al 2007, la quota premiale è stata pari a circa il 28% del totale delle risorse disponibili, ripartita per il 60% sulla base dei risultati della VQR 2011-2014 e per il 20% sulla base della valutazione delle politiche di reclutamento relative al triennio 2017-2019, effettuata anch’essa utilizzando i dati della VQR 2011-2014 (D.M. 442/2020).
I dati che seguono vanno letti, dunque, in un contesto di decremento/contenimento del finanziamento pubblico e della sua crescente distribuzione su base premiale, di una sempre maggiore dipendenza degli atenei da altre fonti di finanziamento ed, infine, di restrizioni del turnover legate ad indicatori di tipo finanziario (D.Lgs. 49/2012 e Decreto-legge 95/2012) che di fatto determinano un travaso di possibilità assunzionali da un ateneo statale all’altro.
L’Università decresce
Dal 2008 al 2020 i docenti/ricercatori dell’università italiana sono diminuiti dell’11,74%. Dal 2010/2011 al 2019/2020 gli iscritti alle classi di laurea triennali e magistrali sono diminuiti del 4,68%. Dal 2008/2009 al 2019/2020, gli iscritti alle scuole di dottorato sono diminuiti del 24,52%. Dal 2012 al 2019 i titolari di assegno di ricerca sono diminuiti del 8,18%.
La decrescita è diversificata per area geografica
Dal 2008 al 2020 i docenti/ricercatori dell’università italiana sono diminuiti del 5,09% al Nord, del 17,51% al Centro e del 15,68% al Sud e nelle Isole. La distribuzione territoriale dei docenti/ricercatori nel 2008 era 41,74% al Nord, 26,35% al Centro e 31,92% al Sud e nelle Isole. Nel 2020 è 44,88% al Nord, 24,63% al Centro e 30,49% al Sud e nelle Isole.
Dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020 gli iscritti all’università sono aumentati del 8,10% al Nord e diminuiti del 7,60% al Centro e del 16,66% al Sud e nelle Isole. La distribuzione territoriale degli iscritti nell’anno accademico 2010/2011 era 39,14% al Nord, 25,24% al Centro, 35,62% al Sud e nelle Isole. Nell’anno accademico 2019/2020 era 44,39% al Nord, 24,46% al Centro e 31,14% al Sud e nelle Isole.
Dall’anno accademico 2008/2009 all’anno accademico 2019/20 gli iscritti alle scuole di dottorato sono diminuiti del 12,72% al Nord, 21,97% al Centro, 42,07% al Sud e nelle Isole. La distribuzione territoriale degli iscritti alle scuole di dottorato nell’anno accademico 2008/2009 era 40,95% al Nord, 29,60% al Centro, 28,74% al Sud e nelle Isole. Nell’anno accademico 2019/2020 era 47,35% al Nord, 30,60% al Centro e 22,05% al Sud e nelle Isole.
La decrescita è diversificata per genere
Dall’anno accademico 2008/2009 all’anno accademico 2019/20 le iscritte alle classi di laurea triennali e magistrali sono diminuite del 6,80%; gli iscritti sono diminuiti dell’1,45%.
Dall’anno accademico 2008/2009 all’anno accademico 2019/20 le iscritte alle scuole di dottorato sono diminuite del 30,27%; gli iscritti sono diminuiti del 18,07%.
Dal 2012 al 2019 le donne titolari di assegno di ricerca sono diminuite del 10,85%; gli uomini del 5,37%.
Decresce solo il sistema statale: docenti/ricercatori
Nelle università statali, dal 2008 al 2020, i docenti/ricercatori sono diminuiti del 14,34%.Nel sistema non statale la variazione è stata del +47,21%: +22,67% nelle università non statali e +789,53% nelle università telematiche (da 86 a 765 in valori assoluti).
Nel 2008 prestava servizio nelle università statali il 95,78% dei docenti/ricercatori, nel 2020 questa percentuale è scesa al 92,96%.
Per il regime di turnover stabilito per le università statali, i cambiamenti di equilibrio nel sistema sono perlopiù derivanti dal gioco fra maggiori e minori perdite.
Nel 2008 nelle università statali del Nord prestava servizio il 40,06% dei docenti/ricercatori delle università statali; nelle università del Centro la percentuale era del 26,89% e in quelle del Sud e delle Isole del 33,06%.
Nel 2020 nelle università statali del Nord, in cui la variazione in valori assoluti è stata di -6,87% docenti/ricercatori rispetto al 2008, presta servizio il 43,55% dei docenti/ricercatori delle università statali. Nelle università del Centro, in cui la variazione sui valori assoluti è stata del -21,87%, l’incidenza percentuale sul totale è divenuta il 24,52%. Nelle università del Sud e delle Isole, in cui la variazione sui valori assoluti è stata del -17,27%, presta servizio il 31,93% dei docenti/ricercatori delle università statali.
L’area geografica in cui è maggiore lo spostamento degli equilibri a favore del sistema non statale è il Centro: nel 2008 i docenti/ricercatori delle università non statali delle ragioni centrali erano il 2,26% del totale dell’area; nel 2020 sono il 7,42%.
Le aree scientifiche in cui gli spostamenti dal sistema pubblico a quello privato sono più significativi sono le scienze giuridiche, economiche, umane, politiche e sociali. Nelle scienze giuridiche, ad esempio, nel 2008 il 94,13% dei docenti/ricercatori prestava servizio nelle università statali, nel 2020 questa percentuale è scesa al 88,47%. Dal 2008 al 2020, i docenti/ricercatori delle scienze economiche hanno avuto variazioni nei valori assoluti del –5,44% nelle università statali e del +48,67% nelle università non statali.
Decresce solo il sistema statale: iscritti
Nelle università statali, dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020, gli iscritti diminuiscono del 9,66%.
Dall’anno accademico 2010/2011 all’anno accademico 2019/2020, l’intero sistema universitario non statale guadagna il 54,34% di iscritti. Nelle università non statali gli iscritti sono aumentati del 9,66% (fino ad arrivare a 111.275 in valori assoluti). Nello stesso arco di tempo, nelle università telematiche gli iscritti sono aumentati del 168,78% (passando da 39.620 a 106.491 in valori assoluti).
Nel 2010/2011 il 92,23% degli iscritti era nelle università statali, nel 2019/2020 questa percentuale è scesa all’87,42%.
Decresce solo il sistema statale: docenti/ricercatori nelle aree geografiche
Al Nord, dal 2008 al 2020, i docenti/ricercatori nelle università statali diminuiscono del 6,87%. Nelle università non statali aumentano del 9,93%.
Al Centro i docenti/ricercatori nelle università statali diminuiscono del 21,87%. Aumentano del 77,10% nelle università non statali.
Al Sud e nelle Isole i docenti/ricercatori nelle università statali diminuiscono del 17,27%. Aumentano del 93,08% nelle università non statali.
Decresce solo il sistema statale: iscritti nelle aree geografiche
Le variazioni nei valori assoluti degli iscritti alle università statali sono +5,49% al Nord, –12,28% al Centro e –23,49% al Sud e nelle Isole.
Le variazioni nei valori assoluti degli iscritti alle università non statali sono +31,49% al Nord, +35,80% al Centro e +151,84% al Sud e nelle Isole.
Il Sud e le Isole sono l’area geografica in cui lo spostamento degli equilibri a favore del sistema non statale è maggiore: nel 2010/2011 gli iscritti alle università non statali erano il 3,90% del totale dell’area; nel 2019/2020 sono l’ 11,77%. Nel Nord tali percentuali passano dal 10,04% del 2010/2011 al 12,22% del 2019/2020; al Centro dal 9,72% al 14,28%.
I divari territoriali
I divari fra le tre macro-aree geografiche del Paese sono forti, ma sono rilevanti anche le disparità fra le regioni di una stessa area geografica.
I rari andamenti positivi sono quasi tutti al Nord
Dal 2008 al 2020 nelle due università del Trentino Alto Adige i docenti/ricercatori crescono del 47,48% (+23,10% nell’Università di Trento e +197,87% nella Libera Università di Bolzano); gli iscritti crescono del 6,59% (+3,09% nell’Università di Trento e +24,51% nella Libera Università di Bolzano).
Il Trentino Alto Adige è però l’unica regione del Paese in cui, nell’università pubblica, crescono sia docenti/ricercatori che iscritti.
Nelle università della Lombardia i docenti/ricercatori decrescono (-0,99%), con perdite del 3,21% nel sistema delle università statali e guadagni del 1,36% in quello delle università non statali e del 11200,00% nelle telematiche. Crescono però, e più che in ogni altra regione d’Italia, gli iscritti (+21,94%), che aumentano del 17,92% nelle università statali, del 12,86% nelle università non statali e del 225,82% nelle telematiche.
Ma anche il Nord coltiva i suoi divari
In Liguria, dal 2008 al 2020 registriamo un calo di docenti/ricercatori del 22,15% e dal 2010/2011 al 2019/2020 una decrescita di iscritti del 17,24%.
Le università del Friuli Venezia Giulia dal 2008 al 2020 hanno perso il 18,09% di docenti/ricercatori e dal 2010/2011 al 2019/2020 il 15,32% di iscritti.
Divari e squilibri infraregionali
Oltre alle differenze fra sistemi universitari regionali, registriamo anche squilibri all’interno delle regioni, dove alcune città crocevia economico/politici (e, spesso, anche di potere accademico) fungono da poli attrattivi a scapito delle altre province.
Con la legge 232/2016 – quella, cioè, che ha introdotto finanziamenti aggiuntivi a 180 dipartimenti delle università statali definiti “di eccellenza”– i dipartimenti finanziati nelle università del Nord sono 106. Al Centro sono 49 e al Sud e nelle Isole sono 25.
Dei 29 dipartimenti finanziati in Lombardia, 20 sono nella sola Milano, città che raccoglie il 68,97% dei dipartimenti finanziati dell’intera regione, il 18,87% dell’intero Nord, l’11,11% dell’intero Paese.
Roma, con i suoi 14 dipartimenti finanziati, concentra il 77,78% dei dipartimenti finanziati nel Lazio, il 28,57% dell’intero Centro, il 7,78% dell’intero Paese.
Napoli, con i suoi 7 dipartimenti finanziati, concentra il 63,64% dei dipartimenti finanziati nella Campania e il 28,00% del Sud e delle Isole e il 3,89% dell’intero Paese
Spostamento degli equilibri nelle aree scientifiche
Dal 2008 al 2020 il gioco fra le maggiori e minori decrescite dei docenti/ricercatori nelle aree CUN ha modificato la distribuzione geografica degli afferenti alle aree, in uno spostamento degli equilibri verso il Nord che ha effetto anche sulla distribuzione geografica dei professori ordinari.
Dal 2008 al 2020 il numero dei professori ordinari è decresciuto diversamente nelle tre macro-aree geografiche del paese: -17,41% al Nord; –34,86% al Centro; -27,53% al Sud e nelle Isole. Se, dunque, nelle università del Nord nel 2008 prestava servizio il 42,60% dei professori ordinari, nel 2020 tale percentuale era salita al 47,05% (+4,45 punti percentuali), mentre al Centro era scesa dal 27,40% al 23,87% (-3,53 punti percentuali) e al Sud e nelle Isole dal 30% al 29,08% (-0,93 punti percentuali). Questa situazione generale si declina in maniera differente nelle 14 aree CUN, dove lo spostamento dei professori ordinari verso le università del Nord va dal massimo di +10,28 punti percentuali dell’area Area 04 – Scienze della Terra, al minimo di +2,49 punti percentuali in Area 06 – Scienze mediche.
La maggiore concentrazione dei dipartimenti finanziati dalla legge 232/2016 nelle regioni del Nord sta accentuando questa tendenza. In questo modo, la legge 232/2016 rafforza gli elementi di frammentazione del sistema e di concentrazione del potere accademico già innestati dai meccanismi della premialità, della dipendenza degli atenei da fonti di finanziamento esterne e dall’uso di indicatori di tipo finanziario.
La didattica precaria
Più di 1 docente su 3 è a contratto (il 35,40% nell’anno accademico 2018/2019).
Dall’anno accademico 2014/2015 all’anno accademico 2018/2019 – questo è l’arco temporale coperto dai dati resi disponibili dall’USTAT-Miur – i contratti di docenza sono in media 28.527 all’anno: più o meno un docente a contratto ogni due docenti/ricercatori (media 1,92).
Docenti a contratto nelle aree geografiche
Il ricorso ai docenti a contratto è più frequente al Nord. Dal 2014/2015 al 2018/2019 nel Nord Ovest i docenti a contratto rappresentano in media il 42,50% dei docenti impegnati nella didattica universitaria e sono in media il 73,93% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato. Nel Nord Est i docenti a contratto rappresentano in media il 33,55% dei docenti impegnati nella didattica universitaria e sono in media il 50,56% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato.
Docenti a contratto nelle università statali e non statali
Nelle università statali, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 28,80% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 40,46% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato.
Nelle università non statali, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 68,83% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 221,22% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato.
Nelle università telematiche, dal 2014/2015 al 2018/2019, i docenti a contratto rappresentano in media il 62,40% dei docenti impegnati nella didattica e sono in media il 166,83% del numero dei docenti/ricercatori in servizio a tempo indeterminato e determinato
Docenti a contratto nei campi disciplinari
L’impiego dei docenti a contratto incide diversamente da un campo scientifico all’altro. Dal 2014/2015 al 2018/2019, fra le incidenze medie più alte troviamo le Scienze giuridiche – con una media di docenti a contratto pari al 57,03% del numero dei docenti/ricercatori –; le Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche, con una media del 72,86% di docenti a contratto; fino alle Scienze Politiche e Sociali con la loro media dell’84,59% di docenti a contratto rispetto al numero dei docenti/ricercatori. Nell’anno accademico 2018/2019 i docenti/ricercatori di Scienze Politiche e Sociali erano 1.669 (1465 nelle università statali e 204 in quelle non statali) e i docenti a contratto nella stessa area sono 1.629: 891 nelle università statali e 738 nelle non statali.
Gli abilitati
A 7 anni dai primi esiti della prima tornata (2012/2013) dell’Abilitazione Scientifica Nazionale introdotta dalla legge 240/2010, dopo 77.464 procedure di abilitazione con esito positivo, abbiamo una media di 1 abilitato entrato nel “suo” ruolo ogni 3,5 procedure di abilitazione “andate a buon fine”. Le procedure con esito positivo sono state 26.919 alle funzioni di professore ordinario (34,75%) e 50.545 alle funzioni di professore associato (65,25%). Dal 2013 al 2020, le prime hanno prodotto 5.975 docenti/ricercatori entrati nel ruolo di professori ordinari (22,20%); le seconde 16.136 docenti/ricercatori entrati nel ruolo di professori associati (31,92%).
I diversamente abilitati per appartenenza territoriale
Questi docenti/ricercatori, tutti egualmente abilitati da procedure unificate a livello nazionale, sono entrati in ruolo in misura maggiore o minore in Sedi diversamente collocate.
Nel 2020, l’incidenza degli abilitati in ruolo sugli abilitati alla prima fascia (professori ordinari) in servizio nelle tre macro-aree geografiche è, infatti, del 36,16% al Nord; del 30,60% al Centro e del 32,21 al Sud e nelle Isole. Ma, anche, del 43,97% in Trentino Alto Adige e del 11,2% in Basilicata.
Nel 2020 l’incidenza degli abilitati in ruolo sugli abilitati alla seconda fascia (professori associati) in servizio nelle tre macro-aree geografiche è il 63,22% nelle università del Nord, il 59,75% nelle università del Centro e il 57,74% nelle università del Sud e delle Isole.
Le diversamente abilitate
Donne e uomini sono egualmente abilitati da procedure unificate a livello nazionale, ma il gap femminile persiste.
Nel 2020, troviamo in ruolo solo il 29,41% del totale delle donne abilitate alla prima fascia. Sul totale degli uomini abilitati, gli abilitati in ruolo sono il 35,93%.
Nello stesso anno è in ruolo il 59,39% del totale delle donne abilitate alla seconda fascia, contro il 61,82% del totale degli uomini abilitati.
Le variazioni del divario di genere
Nel 2008 le docenti/ricercatrici erano il 33,96% del totale. Dal 2008 al 31 dicembre 2020 la decrescita dei docenti/ricercatori uomini (-17,76%) e la decrescita solo debolissima delle donne (-0,04%) fa sì che le docenti/ricercatrici nel 2020 rappresentino il 38,46% del totale.
Filtro di genere nei ruoli apicali
Dal 2008 il numero delle donne in prima fascia (professori ordinari) è aumentato dello 0,5%, il numero degli uomini in prima fascia è diminuito del 31,2%. In prima fascia nel 2008 le donne erano il 18,84% del totale dei professori ordinari. Al 31 dicembre 2020 sono il 25,33%.
Il divario si è dunque assottigliato ma rimane comunque notevole: 49,34 punti percentuali.
Filtro di genere all’ingresso
Dall’entrata in vigore della legge 240/2010 (“legge Gelmini”), ottenere un contratto da ricercatore a tempo determinato “di tipo B” (RTD-B) è l’unica via che porta alla stabilizzazione. Dal 2010 al 2020, la percentuale media di donne RTD-B è del 34,93%, contro un 65,07% di uomini (nel 2020, 41,48% contro 58,52%).
Per fare un raffronto con il bacino dal quale gli RTD-B provengono generalmente – i titolari di assegni di ricerca – dal 2012 al 2019 la percentuale media di donne titolari di assegni di ricerca è del 50,52%, contro il 49,48% di uomini.
Esaurimento e femminilizzazione
Dall’entrata in vigore della legge 240/2010 (“legge Gelmini”), i ricercatori a tempo indeterminato sono stati messi “in esaurimento”. Negli ultimi 10 anni, la fascia si è femminilizzata. Nel 2010 le donne erano il 45,3% del totale dei ricercatori a tempo indeterminato; nel 2020 sono il 49,6%.
Gli 8997 ricercatori a tempo indeterminato superstiti sono per oltre un terzo abilitati (in valori assoluti: 455 abilitati alla prima fascia; 3224 alla seconda fascia) e destinati a sparire entro qualche anno: per passaggio alla seconda fascia o per pensionamento. Fra i ricercatori a tempo indeterminato abilitati alla seconda fascia le donne sono il 51,36%, gli uomini il 48,64%, il che fa pensare a passaggi di fascia più rapidi per gli uomini che per le donne.
La sovraqualificazione nell’università italiana
Nel 2020 nell’università italiana lavorano moltissime persone troppo qualificate per la posizione che occupano.
Fra i docenti/ricercatori in servizio un gran numero di abilitati alla prima fascia sono attualmente al lavoro in una fascia inferiore a quella cui hanno dimostrato di appartenere: sono circa il 54% degli abilitati alla prima fascia (valore assoluto 11.607) di cui circa il 92% professori associati (valore assoluto 10.651).
Fra gli abilitati alla seconda fascia in servizio, circa il 24% non ricoprono il ruolo di professori associati. Sono 4.013 RTD-B (16,77% degli abilitati alla seconda fascia in servizio), 3.224 ricercatori a tempo indeterminato (13,47% degli abilitati alla seconda fascia in servizio) e 2.107 RTD-A (8,80% degli abilitati alla seconda fascia in servizio).
Migliaia di giovani altamente qualificati saranno espulsi dal sistema universitario italiano
Inoltre le procedure di abilitazione “andate a buon fine” hanno prodotto un gran numero di abilitati “esterni” al sistema della ricerca universitaria italiana censito nel sistema Miur-Cineca. Si tratta all’incirca di 3.372 abilitati alla prima fascia (il 15,66%) e di 13.156 abilitati alla seconda fascia (il 33,19%)
Nella zona di confine fra appartenenza ed esclusione che siamo soliti chiamare “precariato”, nel 2020 si trovano 4.886 RTD-A e 14.476 assegnisti di ricerca. Nel 2019 c’erano anche 29.956 docenti a contratto. Le sovrapposizioni fra assegnisti, collaboratori e docenti a contratto sono senza dubbio molto numerose, tuttavia è arduo, se non impossibile, conteggiarle precisamente.
In ogni caso, è probabilmente tra questi che dobbiamo cercare gli oltre 16.000 abilitati “esterni” al sistema della ricerca universitaria italiana censito nel sistema Miur-Cineca.
Tutti questi ricercatori hanno come unico sbocco per la stabilizzazione l’ottenimento di un contratto da RTD-B. Ma, dal 2016 al 2019, la media dei contratti da RTD-B, in Italia, è stata di circa 1.385 all’anno.
È inevitabile ipotizzare, quindi, che questi ricercatori – sulla cui altissima formazione il Paese, l’università, le famiglie, i ricercatori stessi, hanno fortemente investito – saranno per la maggior parte espulsi dal sistema della ricerca italiano.
Per citare questo rapporto:
Stazio M., Traiola M., Napolitano D. (2021), 2008-2020. Rapporto sull’università italiana, unrest–net.it: https://www.unrest-net.it/rapporto-sulluniversita-italiana/ ISBN 9791220085991